Ancora una volta, da The Federalist No. 22:
Ogni idea di proporzione e ogni regola di equa rappresentanza cospirano per condannare un principio che dà al Rhode Island un peso uguale nella scala del potere con il Massachusetts, o Connecticut, o New York; e al Delaware una voce uguale nelle deliberazioni nazionali con la Pennsylvania, o Virginia, o North Carolina. Il suo funzionamento contraddice la massima fondamentale del governo repubblicano, che richiede che il senso della maggioranza debba prevalere. La sofistica potrebbe rispondere che i sovrani sono uguali, e che la maggioranza dei voti degli Stati sarà la maggioranza dell’America confederata. Ma questo tipo di legerdemain logico non potrà mai contrastare i chiari suggerimenti della giustizia e del buon senso. Può accadere che questa maggioranza di Stati sia una piccola minoranza del popolo d’America; e due terzi del popolo d’America non potrebbero essere persuasi a lungo, sulla base di distinzioni artificiali e sottigliezze sillogistiche, a sottomettere i loro interessi alla gestione e alla disposizione di un terzo.
Hamilton odiava-odiava il compromesso in base al quale la Convenzione costituzionale fu ricattata per dare a ogni Stato lo stesso numero di senatori indipendentemente dalla popolazione. Nel saggio citato sopra, egli sta apparentemente inveendo contro gli Articoli della Confederazione. Ovviamente, però, il suo argomento si applicherebbe con uguale forza all’articolo I, sezione 3 della Costituzione che lui, James Madison e John Jay stavano follemente scribacchiando in difesa.
Hamilton e Madison (anche Washington, a proposito; non sono sicuro di Jay) favorirono fortemente quella che allora era chiamata “rappresentanza proporzionale”. (La moderna R.P., secondo la quale i seggi legislativi sono distribuiti approssimativamente in linea con le quote di voto aggregate dei partiti, non era ancora stata inventata). Come Obama, si costrinsero a pagare quello che sapevano essere un prezzo corrotto e immorale per ottenere un accordo appena accettabile – che vendettero, come Obama, come una bella soluzione di spirito pubblico.
Quando venne il momento di decidere chi avrebbe scritto il saggio in difesa della disposizione dei due senatori per Stato, Madison prese la pagliuzza corta. In The Federalist No. 62, il piccolo Jemmy non si preoccupò di nascondere la sua mancanza di entusiasmo per il compito:
L’uguaglianza di rappresentanza nel Senato è un altro punto, che, essendo evidentemente il risultato di un compromesso tra le opposte pretese degli Stati grandi e piccoli, non richiede molte discussioni.
Solo una piccola discussione, in cui Madison ammise francamente che l’accordo era un patto politico che non aveva nulla a che fare con alti principi repubblicani o teoria democratica. Sarebbe inutile, scrisse,
provare, con lo standard della teoria, una parte della Costituzione che è da tutti ammesso essere il risultato, non della teoria, ma “di uno spirito di amicizia, e di quella reciproca deferenza e concessione che la peculiarità della nostra situazione politica ha reso indispensabile.” Un governo comune, con poteri pari ai suoi obiettivi, è richiesto dalla voce, e ancora più forte dalla situazione politica, dell’America. Un governo fondato su principi più consoni ai desideri degli Stati più grandi non può essere ottenuto dagli Stati più piccoli. L’unica opzione, quindi, per i primi, sta tra il governo proposto e un governo ancora più discutibile. Sotto questa alternativa, il consiglio della prudenza deve essere quello di abbracciare il male minore; e, invece di indulgere in un’infruttuosa anticipazione dei possibili mali che ne possono derivare, contemplare piuttosto le vantaggiose conseguenze che possono qualificare il sacrificio.
In altre parole, i piccoli Stati hanno fatto una richiesta non negoziabile. Madison, Hamilton e gli altri adulti si resero conto che l’unica alternativa al cedimento era il fallimento della Convenzione e un ritorno agli Articoli della Confederazione, che sarebbe stato ancora peggio di un governo con un Senato incasinato. Così hanno ceduto, e ora stanno facendo del loro meglio per smettere di preoccuparsi del Senato e concentrarsi sugli aspetti positivi del nuovo assetto governativo proposto, che probabilmente sarà meno cattivo (“il male minore”) dello status quo.