Contemporaneamente, tuttavia, e poi negli anni successivi, Shakespeare si rivolse nuovamente alla scrittura di commedie. Le commedie tardive sono di solito chiamate romanze o tragicommedie perché raccontano storie di peregrinazioni e separazioni che portano alla fine a un ricongiungimento lacrimevole e gioioso. Sono soffuse di uno stato d’animo agrodolce che sembra eloquentemente appropriato a uno scrittore che ha esplorato con tale spietata onestà le profondità della sofferenza e della degradazione umana nelle grandi tragedie.
Pericle, scritto forse nel 1606-08 e basato sul racconto familiare di Apollonio di Tiro, potrebbe comportare una certa collaborazione d’autore; il testo è insolitamente imperfetto, e non è apparso nel Folio del 1623. Impiega una figura del coro, John Gower (autore di una versione precedente di questa storia), per guidare il lettore o lo spettatore intorno al Mediterraneo nei vari viaggi di Pericle, mentre evita il matrimonio con la figlia dell’incestuoso re Antioco di Antiochia; sposa Thaisa, la figlia del re Simonide di Pentapoli; ha un figlio da lei; crede che sua moglie sia morta di parto durante una tempesta in mare e fa gettare il suo corpo in mare per calmare le paure superstiziose dei marinai; affida sua figlia Marina alle cure di Cleone di Tarso e della sua perfida moglie, Dionyza; e alla fine viene restituito alla moglie e al figlio dopo molti anni. La storia è una tipica storia d’amore. Shakespeare aggiunge scene toccanti di ricongiungimento e la percezione che sotto il racconto ingenuo del viaggio si nasconde una sottile drammatizzazione della separazione, della perdita e del recupero. Pericle è profondamente oppresso dalla sua perdita e forse anche da un senso di colpa per aver acconsentito a consegnare il corpo di sua moglie al mare. Si riprende dalla sua disperazione solo grazie alle cure di una figlia amorevole, che è in grado di dargli una ragione per vivere di nuovo e poi per riunirsi con sua moglie.
Il Racconto d’Inverno (c. 1609-11) è in qualche modo una riproduzione di questa stessa storia, in quanto il re Leonte di Sicilia, colpito da una gelosia irrazionale di sua moglie, Ermione, provoca la morte apparente di quella moglie e la morte reale del loro figlio. Il senso di colpa che ne deriva è insopportabile per Leonte, ma alla fine è curativo per un periodo di molti anni che sono necessari alla sua unica figlia, Perdita (che ha quasi ucciso anche lei), per crescere fino alla maturità nella lontana Boemia. Anche questa storia è basata su un romanzo in prosa, in questo caso il Pandosto di Robert Greene. Il ricongiungimento con la figlia e poi con la moglie è profondamente toccante come in Pericle, con il tocco magico aggiunto che il pubblico non sa che Hermione è viva e in realtà gli è stato detto che è morta. La sua meravigliosa apparizione come una statua che prende vita è uno dei grandi colpi di scena di Shakespeare, che gioca con i temi shakespeariani preferiti in queste ultime opere: la figlia che assiste, il marito in preda ai sensi di colpa e la moglie miracolosamente guarita. La storia è ancora più commovente se si considera che Shakespeare potrebbe aver avuto, o immaginato, un’esperienza simile nel tentativo di recuperare un rapporto con sua moglie, Anne, che aveva lasciato a Stratford durante i suoi molti anni a Londra.
In Cymbeline (c. 1608-10) il re Cymbeline spinge la sua virtuosa figlia Imogen in esilio con la sua opposizione al suo matrimonio con Posthumus Leonatus. La moglie in questo caso è la perfida regina di Cimbelino, una matrigna malvagia e stereotipata, il cui figlio Cloten (fratellastro di Imogen) è l’incarnazione di tutto ciò che minaccia e rimanda l’eventuale lieto fine di questo racconto. Anche Postumo fallisce Imogen essendo irrazionalmente geloso di lei, ma alla fine viene recuperato ad una fede nella sua bontà. L’oscuro ritratto della regina illustra quanto sia ambivalente la visione che Shakespeare ha della madre nelle sue ultime opere. Questa regina è la matrigna malvagia, come Dionyza in Pericle; nel suo implacabile desiderio di controllo, ci ricorda anche Lady Macbeth e le Sorelle Strane in Macbeth, così come la madre di Coriolano, Volumnia. La madre divoratrice è una presenza proibitiva nelle ultime opere, sebbene sia controbilanciata da figure materne redentrici come Ermione nel Racconto d’Inverno e Thaisa in Pericle.
La Tempesta (c. 1611) riassume molto di ciò che l’arte matura di Shakespeare era tutto. Ancora una volta troviamo un padre senza moglie con una figlia, in questo caso su un’isola deserta dove il padre, Prospero, è interamente responsabile dell’educazione della figlia. Si comporta anche come un drammaturgo responsabile dell’intera opera, organizzando la sua vita e quella degli altri personaggi. Usa una tempesta in mare per portare il giovane Ferdinando in compagnia di sua figlia; Ferdinando è la scelta di Prospero, perché un tale matrimonio risolverà l’aspra disputa tra Milano e Napoli – sorta dopo che quest’ultima ha sostenuto Antonio, fratello usurpatore di Prospero, nella sua rivendicazione del ducato di Milano – che ha portato all’esilio di Prospero. Allo stesso tempo, Ferdinando è certamente anche la scelta di Miranda; i due si innamorano immediatamente, anticipando il desiderato lieto fine romantico. La fine significherà anche la fine della carriera di Prospero come artista e drammaturgo, perché è vicino alla pensione e sente che il suo dono non rimarrà con lui per sempre. Lo spirito imprigionato Ariel, incarnazione di quel dono temporaneo e prezioso, deve essere liberato nei momenti finali dell’opera. Anche Calibano deve essere liberato, poiché Prospero ha fatto il possibile per educare e civilizzare questo uomo naturale. L’arte può arrivare solo fino a un certo punto.
La Tempesta sembra essere stata concepita come l’addio di Shakespeare al teatro. Contiene passaggi commoventi di riflessione su ciò che i suoi poteri di artista sono stati in grado di realizzare, e temi valedittoriali di chiusura. Come commedia, dimostra perfettamente il modo in cui Shakespeare era in grado di combinare una precisa costruzione artistica (la commedia sceglie in questa occasione d’addio di osservare le unità classiche di tempo, luogo e azione) con il suo talento speciale per le storie che trascendono il meramente umano e fisico: La Tempesta è popolata di spiriti, mostri e danze. Questo, sembra, è il riassunto di Shakespeare della sua arte di drammaturgo comico.
Ma La Tempesta non fu l’ultima opera di Shakespeare, dopo tutto. Forse scoprì, come fanno molte persone, che si annoiava in pensione nel 1613 o giù di lì. Senza dubbio la sua compagnia di attori era ansiosa di riaverlo con sé. Scrisse una commedia storica intitolata Enrico VIII (1613), che è straordinaria per una serie di aspetti: riferisce eventi storici sostanzialmente più tardi cronologicamente rispetto a quelli del XV secolo che erano stati il suo soggetto nelle sue precedenti commedie storiche; è separata dall’ultima di quelle commedie forse di 14 anni; e, forse più significativo, è tanto un romanzo quanto una commedia storica. La storia in questo caso riguarda davvero la nascita di Elisabetta I, che sarebbe diventata la grande regina d’Inghilterra. Le circostanze delle travagliate vicende coniugali di Enrico VIII, il suo incontro con Anna Bolena, il suo confronto con il papato, e tutto il resto si rivelano essere i modi umanamente imprevedibili con cui la Provvidenza organizza il miracolo della nascita di Elisabetta. L’opera termina con questo grande evento e vede in esso la giustificazione e la necessità di tutto ciò che è avvenuto. Così la storia cede il suo significato provvidenziale nella forma di una commedia che è al tempo stesso storia e romanzo.